Pontiniaweb.it pubblica un racconto che ha per soggetto “la vita” dell’albero di Eucalyptus nell’agro pontino ed n particolare a Pontinia. Il racconto è stato scritto sulla scia delle emozioni suscitate dalla lettura del libro “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi (Mondadori editore) vincitore del premio Strega 2010 e finalista del premio letterario Campiello oltre che di talune inedite notizie apprese dal saggio “Fascio e Martello. Viaggio per le città del Duce” (Laterza editore) sempre opera di Antonio Pennacchi. L’ispirazione, invece, proviene dall’esperienza volta a comprendere e divulgare, in forma diversa ed inedita, la cultura per il territorio di Pontinia in un’operazione di “marketing culturale e territoriale” sintetizzata dal portale internet pontiniaweb.it ed espressa dalle attività realizzate e dalle idee proposte.
Proponiamo un estratto del racconto “il mio nome è Calìps!” con l’omaggio all’opera di Antonio Pennacchi:
“Il nostro sindacalista, quello della fabbrica dell’Agro Pontino, si chiama Antonio Pennacchi e si dà un gran da fare stimolando coscienze e conoscenze che hanno dato voce a questo comunicato ed al quale siamo riconoscenti per l’impegno sociale e culturale verso il nostro territorio. – firmato Calìps” tratto dal racconto breve di Antonio Rossi
Di seguito, invece, l’intero racconto.
Il mio nome è Calìps!
di Antonio RossiMi chiamo Eucaliptus, Eucaliptus Botryoides, ma i veneti Ferraresi giunti nell’agro pontino appena bonificato mi chiamarono Calips. Un equivoco nella comprensione del nome e la distorsione della pronuncia nel dialetto veneto hanno fatto il resto. Comunque Calips è più corto e facile da ricordare e da dire rispetto ad Ecucaliptus soprattutto per quelle genti che venivano dalla “bassa” e badavano poco alla forma e molto alla sostanza, perché è di quella che avevano bisogno e per cui erano venuti nelle ex paludi pontine. Pochi convenevoli: tu fai il tuo ed io il mio, e tutti insieme mandiamo avanti l’agro pontino con i canali, i bufali e le idrovore.
Giunsi anch’io in agro pontino poco prima di loro e quando ci incontrammo lungo le migliare ed i canali ero poco più di un fuscello, ma eravamo tanti: un reggimento!
Ci vedevamo tutti i giorni, eravamo in confidenza perché lavoravamo tutti per lo stesso padrone e credo che il mio cognome neanche lo hanno mai saputo: bastava il lavoro che facevo nell’interesse di tutti.
Avevamo un compito da assolvere, e continuiamo ancora a svolgerlo, ma oggi non siamo più apprezzati.
Siamo degli incompresi! Ci hanno dimenticato e quindi abbandonato, non tanto i veneti della prima ora, ma i veneto-pontini della seconda e terza generazione; per non parlare, poi, di chi è arrivato qua dagli anni cinquanta in poi: non ci hanno mai presentati ed ancora oggi non ci salutiamo. Ci ignorano nel migliore dei casi. Eppure siamo grandi e ancora tanti, ma niente da fare.
Sono qui per cercare di ricordare l’importanza del mio compito, sperando di persuadere le nuove generazioni che abitano l’agro pontino del XXI secolo, raccontando la mia storia: una autobiografia non ancora postuma ma solitamente quando ci si appresta a scriverne una, o si ricordano nostalgicamente i bei tempi andati, è perché si sente più prossima la fine!
La nostra incubatrice fu proprio la terra ubertosa dell’agro redento come lo chiamavano a quel tempo.
L’infanzia l’abbiamo trascorsa in un campo di addestramento militar-botanico dove eravamo coltivati. Il compito era di rinforzare gli argini e consolidare il terreno, assorbire l’acqua stagnante contribuendo così alla bonificazione del territorio, allontanare le zanzare, specie quella anofelica portatrice della malaria che flagellava questa terra, e soprattutto mitigare quel “borioso” vento che dal mare si riversa spesso come un ciclone per la pianura pontina, già palude.
Poi dovevamo fornire legna da ardere che magari veniva buona anche per costruire, tenere pulito il terreno circostante visto che con le foglie che perdiamo e l’acqua che assorbiamo siamo poco socievoli con le altre specie.
Ci avevano reclutato in Australia, la terra natia della nostra specie, e non abbiamo tradito le aspettative e la fiducia riposta ma, quanto a legna da ardere siamo buoni solo per fare la fiamma e a qualcuno va bene lo stesso perché costa poco, talvolta è perfino gratis, e mischiandola con altra legna il fuoco si avvia velocemente.
Per quanto riguarda, invece, il legname da costruzione rivolgetevi altrove! Alle zanzare, di tutte le specie inclusa quella tigre, non gli facciamo poi così tanta paura: siamo un deterrente e niente di più, come gli ultrasuoni che emettono certi gadget tecnologici di oggi.
Però, abbiamo regalato anche delle piacevoli sorprese e delle belle soddisfazioni: dal nostro polline le api producono un miele balsamico squisito e salutare e, prodigio, cresciamo velocemente, ci facciamo grossi subito.
E’ questo uno degli altri motivi per cui ci avevano reclutato per la campagna dell’agro pontino: dovevamo popolare questo territorio strappato alla palude, che era mortifera solo per l’uomo, in fretta: “tanto più presto tanto meglio” diceva un tizio a quei tempi aveva un certo seguito, e poi siamo resistenti a tutto… tranne che all’uomo.
Insomma sembriamo fatti apposta per l’agro pontino, ci siamo capiti subito e abbiamo giocato e vinto una partita importante, quella contro la sferza del vento, e pure fatto qualche passaggio decisivo contro la malaria definitivamente sconfitta, però, solo durante la seconda guerra mondiale, non con le bombe, che pure sono cadute da queste parti, ma con la chimica del DTT.
A chi dovesse pensare che è stato tutto merito della bonifica integrale se ci siamo insediati in agro pontino è in errore, almeno in parte. Alcuni miei antenati, già dalla fine del 1800, erano stati piantati al limitare delle paludi pontine, infestate dalla malaria, alle porte di Roma.
Merito dei Monaci Trappisti che avevano intuito come la nostra presenza contribuiva a rendere più salubre l’aria e tendeva ad arginare l’insorgere della malaria, almeno nelle forme perniciose, e lo avevano dimostrato sulla loro stessa pelle tanto da convincere il governo di allora a concedere in enfiteusi parte dei terreni pianeggianti dell’agro romano. Anche a quei tempi si ricorreva agli incentivi per convincere i proprietari dei terreni dell’Agro Romano a piantare eucalitti, al plurale ci chiamiamo anche così, perché assorbiamo come spugne l’acqua e l’umidità insidiando le condizioni dove si riproduceva la zanzara anofele portatrice del terribile morbo della malaria.
Questi monaci, probabilmente, avevano visto la mia specie in alcuni giardini di qualche signorotto di quell’Italia fatta di ville, castelli e tenute, dove già dal 1700 alcuni nobili usavano adornare i sontuosi giardini con molte specie arboree tra cui quelle esotiche, allora, erano di gran voga.
Ed ecco come arrivarono in Italia i miei avi e come i curatori di questi giardini ed orti botanici cominciarono a studiarne gli effetti sull’ambiente, tanto che i monaci, tradizionalmente esperti di botanica, si erano persuasi che potessimo avere uno sfruttamento economico.
Quasi cinquanta anni dopo i tecnici della bonifica sfruttarono queste e le altre nostre proprietà con piantumazioni intensive.
Tornando nell’agro pontino bonificato il genio della bonifica ci aveva schierati, quindi, in filari ed inquadrati in cordigliere, dette frangivento, a baluardo dei campi coltivati, delimitando fossi ed ombreggiando le migliare che tracciano la rete viaria della pianura pontina.
Eravamo guardati con rispetto e reverenza, ricevevamo tutte le attenzioni e le migliori cure, come la potatura periodica, ed eravamo rimpiazzati quando ce ne era bisogno.
La retroguardia, che sostituiva i caduti nella lotta contro il vento, era costituita dal doppio filare con il quale serravamo i ranghi a cordigliera così il rimpiazzo, ovvero il rinfoltimento, non pregiudicava mai l’efficacia del nostro vallo: una fortificazione naturale contro il vento.
Al pari delle nuove città e borghi costruiti nelle ex paludi pontine, noi eravamo, e siamo, il simbolo botanico di questo territorio che abbiamo colonizzato insieme ai veneti ed alle altre popolazioni chiamate a redimere la terra nell’agro pontino.
Dopo la tabula rasa operata dalla bonifica idraulica integrale, i pochi alberi superstiti restituivano una landa pianeggiante che noi abbiamo contribuito a disegnare nella sua caratterizzazione paesaggistica: delimitando le strade, definendo i poderi, alberando canali e fossi. Insomma siamo il paesaggio, i connotati naturali, della campagna dell’agro pontino come la torre civica del municipio o il campanile della chiesa lo sono per le città fondate.
Nelle nuove terre sottratte alla malaria, oltre ai borghi di servizio, alle città di fondazione, alle migliare ed ai canali ci siamo anche noi una nuova specie arborea in agro pontino, giacché da queste parti non avevamo parenti, proprio come i veneti: stranieri in terra straniera e ci siamo trovati bene, da subito, tanto che oggi abbiamo la piena cittadinanza e gli esperti dicono che siamo una “specie spontaneizzata”.
Con i 20 metri di statura che raggiungiamo, le folte chiome verticali e la flessibilità dei nostri rami, mitighiamo, attenuandolo considerevolmente, l’impeto del vento a tutela delle coltivazioni impiantante, dei campi appena seminati e dei poderi.
Siamo degli “ever green” purtroppo solo nel senso reale, cioè siamo una specie sempre verde, e non anche nel senso figurato giacché sono qui a reclamare la mia presenza su questo territorio, rivendicando il ruolo che mi appartiene.
Dalle mie foglie sempre verdi, se essiccate ed opportunamente trattate, sono estratti i principi attivi per fluidificare ed eliminare le secrezioni bronchiali, oltre ad essere anche un rimedio efficace per il trattamento della febbre ed in particolare per alleviare i sintomi dell’asma.
Siamo un buon rimedio contro le infiammazioni dell’apparato urogenitale ed intestinale e vantiamo proprietà antivirali ed antinfiammatorie. Torniamo utili pure contro i reumatismi, stimoliamo il sistema immunitario e cerchiamo di far passare il mal di testa.
Sono presente anche nelle medicazioni contro l’herpes, il fuoco di Sant’Antonio e nel trattamento delle vesciche della varicella. Inoltre, se ciò ancora non bastasse a guadagnare la vostra stima e rispetto, le mie foglie sono utilizzate anche nella produzione degli insetticidi contro i parassiti.
Queste sono le mie referenze ed il mio curriculum con il quale reclamo il diritto di esistere e a lottare per il mio posto di lavoro, oggi più che mai precario, nella fabbrica dell’agro pontino.
Da qualche tempo siamo messi al bando: per alcuni sporchiamo, nel senso che facciamo molte foglie, ci spezziamo quando tira vento, perché manca la manutenzione, e dicono che siamo una specie pericolosa e pericolante, soprattutto dove ormai la campagna è diventata città.
Siamo visti male, meglio una magnolia, che pure di foglie ne fa quanto a noi, o una palma che proprio piccola non è: noi troppo grandi ed ingombranti spesso finiamo per essere arbitrariamente ed inesorabilmente estirpati.
Di quelle ordinate e rigorose cordigliere che contraddistinguono la pianura pontina rimangono filari interrotti, smozzicati, più o meno all’altezza di una casa o di una palazzina.
Rimangono tracce di decapitazioni e delle più atroci torture come le iniezioni di gasolio nel tronco praticate con il trapano.
Monconi spuntano nel terreno, lungo argini e strade a testimonianza di una nobiltà decaduta, un po’ nostalgica di una epoca che forse non è più in voga, quasi come quelle fabbriche abbandonate sempre in agro pontino: siamo dei residuati eco-sostenibili dell’era post rurale, dei ruderi ambientali ai quali nessuno presta più attenzione.
Noi dimoravamo lontano dagli abitati e dalle case per ragioni di sicurezza vista la nostra mole e perché il nostro lavoro di contrasto al vento va fatto per gradi oltre che per aiutare l’irrigazione a getto nei vasti poderi dell’agro pontino, poi tutti frazionati e venduti: decaduti pure loro!
Siamo caduti proprio in disgrazia: dai giardini botanici del 1700 rigogliosi di specie rare ed esotiche provenienti da tutto il mondo dove facevamo bella mostra con la nostra mole, dallo sfruttamento economico intrinseco alla nostra natura, ci troviamo ora a campare di stenti. Dalle stelle alle stalle!
Oggi le case sono costruite lungo gli argini e se diamo fastidio la colpa è della nostra natura! Ma come si può consentire di edificare e quindi andare a vivere lungo un canale di bonifica tra zanzare, ranocchie e tutto quello che poi ci hanno messo dentro: nutrie e pantegane.
Non me ne vogliano gli altri protagonisti di questo territorio fossi, scoline e canali ma anche lungo gli argini dei loro parenti più illustri come Tamigi, Senna, Arno, Tevere e Po, che sono fiumi e solo per citarne alcuni, nessuno ci costruisce o ci abita: semmai ci passa un viale, una banchina, una pista ciclabile, un molo, ci mettono degli alberi, guarda un po’, magari dei platani che forse sono pure più antipatici di noi.
Qui c’eravamo noi, i Calips, poi ci hanno fatto le case, neanche se di spazio non ce ne fosse da queste parti e bisognava per forza andare a costruire vicino l’argine o alle cordigliere; e così da colleghi e amici siamo diventati indesiderati, non formalmente, perché quella oggi va salvata, ma nei fatti che sono sempre quelli che contano.
Risultato, cordigliere spezzate, fiaccate, mortificate dove lo stato di abbandono e l’incuria regnano sovrane, ma quello che ci fa più male è soprattutto l’ignoranza: la madre di tutte le intolleranze.
Il nostro sindacalista, quello della fabbrica dell’Agro Pontino, si chiama Antonio Pennacchi e si dà un gran da fare stimolando coscienze e conoscenze che hanno dato voce a questo comunicato ed al quale siamo riconoscenti per l’impegno sociale e culturale verso il nostro territorio.
Il vento ora soffia più veloce, le trombe d’aria si sentono di più, siamo portati a pensare che qui tutto ci è dovuto quando, invece, è stato creato con il lavoro, l’ingegno ed il sacrificio dell’uomo e tanti caduti, i pionieri della bonifica, che hanno combattuto forse la più nobile delle guerre: quella per la terra ed il grano. Noi insieme ai canali, ai fossi di scolo siamo una parte importante dell’ecosistema dell’agro pontino, seppure impiantato e mantenuto artificialmente, ma sempre ecosistema!
Oggi viviamo nell’era della “sensibilità verso il verde” dove la sostenibilità e l’attenzione per l’ambiente, la tutela del patrimonio ambientale è più forte ma non qui in agro pontino o per lo meno non verso di noi.
I miei cugini a dimora in Sardegna, mi dice il vento che oggi fa la voce grossa, sono più fortunati. Beati loro. Intanto siamo qui e abbiamo visto come questo territorio è cambiato, non sempre in peggio per la verità, ma per l’entusiasmo e le premesse da cui eravamo partiti oltre 70 anni or sono, ci aspettavamo qualche cosa di più.
Piacere di conoscervi, chiamatemi pure Calips!
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Nov 10, 2010Posted By
Antonio RossiL’idea era quella di illustrare le vicende di questi alberi dalla loro comparsa in Agro pontino fino ai giorni nostri cercando di mettere in risalto proprietà, virtù, e qualche curiosità condensando le informazioni tratte dalle risorse citate nella pagina bibliografica attraverso la “viva voce” di un immaginario Calìps tipo di qualche migliara di Pontinia!